Nema Problema!

Antefatto - Il Portogallo, i Sami, e…gli Iron Maiden.
Se non era per il Portogallo al Festival non ci sarei andato. E nemmeno in Portogallo del resto. Perché in Portogallo, nello specifico nel sud del Portogallo, fa davvero molto, troppo, caldo. Il che per me, lo capirete a breve, è un bene. Io il caldo difatti non lo reggo, e quando non reggo una cosa tendo a rompere i coglioni. Ciò mi rende insopportabile. Ancora di più del normale per intenderci.
 
Ma per spiegarvi bene il nesso tra il baccalà che non è stato e le doppie razioni di polenta concia che ho con somma gioia ingerito a Estoul, è bene fare un piccolo (per l’uomo e anche per l’umanità) passo indietro nel tempo.
 
Dunque, tutti gli anni, più o meno a febbraio, io e mio figlio ci troviamo per fare il punto sulle vacanze estive. Il padre dall’alto della sua saggezza e conoscenza del mondo propone, lui decide. È sempre stato così. Io, lo ammetto, sono piuttosto ripetitivo: Scandinavia, Alpi, Pirenei, sognando il Canada e la Patagonia. Quest’anno me ne esco con un perentorio: “Lapponia? Dai, si va a conoscere i Sami!”. Sono bravi i Sami, hanno le slitte, sono tutti un po’ sciamani, credono nel potere magico dei sogni. I Sami parlano il sami. Mi stanno simpatici i Sami. Mio figlio amerà i Sami. Infatti: “No babbo, si va in Portogallo, Algarve”. In Portogallo? Bello il Portogallo, c’è il baccalà, il Benfica, l’oceano. Figo! (esclamazione, ma anche il calciatore). E poi Pessoa, un grande. C’è un problema: in Portogallo fa caldo. Ad Algarve il clima è subtropicale. “Emiliano, in Portogallo fa caldo, a Luglio poi…Lapponia proprio no?”. Lapponia proprio no: “Allora mandami in una vacanza studio in Inghilterra, da solo. Così non rompi i coglioni con il caldo”. 
 
Inizialmente fatico a comprendere il percorso mentale che dal “Portogallo con il babbo” lo ha portato a “vacanza studio da solo a Winchester” ma del resto nemmeno mio padre capiva il mio amore per gli Iron Maiden. In ogni caso, perché no? Vada per queste due settimane lontane da papi. Costo duemilacinquecento euri, budget ferie padre/figlio decimato. Ma io non patirò il caldo, e mio figlio, quindici anni, ormone allo stato brado (e qui realizzo che il ragazzo ha giocato bene le sue carte e che la provocazione del Portogallo ha funzionato), si libererà finalmente del giogo di suo padre. Dunque che fare? Che fare IO intendo. Mi rimangono più o meno 300 Euri, e con questa cifra in Lapponia non ci si va. Bisogna vada più vicino. Nella “mia Valle”. Ma sì! Torno nella mia Valle! Dove quest’anno? Mi metto a googolare. La conosco bene la mia Valle, ma forse c’è una valle della Valle che ancora non ho visto. Poi ricordo. Un’amica mi ha parlato di un Festival, si chiama Il Richiamo della Foresta, nei pressi di Brusson, vediamo un po’ se è fattibile, il programma oltretutto è davvero interessante. Ma sì, due notti in tenda fanno 20 euri, poi metti una maglietta, salsicce, polenta, zuppa valdostana e Genepy per tre giorni, infine benzina e pedaggio autostradale. Ci sto dentro! E aggiungo tre giorni in rifugio. Si parte!
 
Il Festival, giorno 1 - Date un gazebo ai bisognosi! Ma certo, nema problema!
Rifugio Arp, quasi 2500 metri slm nel vallone di Palasinaz, un vero paradiso per chi ama il trekking. E io ci do che ci do che ci do. Colle e Punta Valnera, colle, laghi e Punta Valfredda, e poi i laghi e il colle di Palasinaz, il Corno Bussola, il lago e il colle di Bringuez, il lago Lungo. Al terzo giorno mi fumano i piedi, ma sono soddisfatto. Al rifugio si mangia benissimo, si dorme ancora meglio e i gestori sono simpatici. L’ultima sera, essendo l’unico ospite, mangio con loro, ufficialmente invitato. Affettati, polenta, spezzatino di daino. Sono commosso. Venerdì mattina sono pronto per scendere a Estoul dove il martedì precedente ho lasciato la macchina e dentro di essa tenda, materassino e il minimo necessario per due notti/tre giorni di campeggio privo di corrente elettrica. È ancora presto, prima di partire mi metto a curiosare tra i libri e le riviste riposti a casaccio sul tavolino. “Le otto montagne” se ne sta proprio al centro. Già, Cognetti! Dal sito del Festival ho capito che Cognetti “c’entra qualcosa”. Questo romanzo non l’ho ancora letto. Sai che? Darò una scorsa veloce. Dieci pagine. Venti. Quaranta. Basta, altrimenti non scendo più.
 
Mi alzo e nel frattempo nel rifugio entrano due uomini (o forse erano tre?) e una bella ragazza. Salutano il gestore e chiedono un caffè al bancone del bar. Capisco che arrivano da Estoul. Sono sudati, è una bella giornata di sole già abbastanza alto; ci vuole un’oretta, per i bene allenati, per arrivare fin qui. Beh, sembrano della zona, adesso chiedo del Festival: “Si svolge sopra il parcheggio in fondo alla strada di Estoul vero?”. Mi risponde un ragazzo dai capelli rossicci: “Esatto”. È Cognetti. Bada te i casi della vita. Uno legge un romanzo trovato in un rifugio che due mesi prima nemmeno sapeva esistesse, ed ecco che all’improvviso entra l’autore (del romanzo, non del rifugio). E un autore “micacazzi” per giunta! Visto che il caffè non arriva porto loro la moka che mi avevano dato per colazione, è ancora quasi piena. Ricambiano il gesto con un bel sorriso, io torno alla mia lettura.
 
Dopo una ventina di minuti salutano e ripartono, io arrivo fino a pagina ottanta (“ne comprerò una copia quando torno a casa”), ripongo il tomo dov’era e mi avvio. Quando giungo allo spiazzo  dedicato al Festival (il Pian dell’Orgionot) i preparativi fervono, ma sono quasi ultimati. Tensostrutture montate, gente che va e viene, apparentemente tutti con qualcosa da fare. Dalle magliette riesco a identificare gli organizzatori o almeno così penso. Chiedo a una signora che armeggia dietro a un bar che tre giorni prima non esisteva “Scusi sa mica dove posso...”, “Senti Federica..”. Bene sento Federica, ma chi è Federica? Il mio sguardo vuoto (e nel vuoto) incrocia una ragazza “Scusa cercavo Federica…”. Trovata, è lei. Mi dice dove piazzare la tenda (“Nel bosco, dove vuoi tu”) e che per pagare devo aspettare che montino la “reception”. La reception? Figo! (esclamazione e basta).
 
Scendo al parcheggio, ci ritrovo la macchina e me ne compiaccio. Prendo la tenda e faccio un veloce cambio di zaini. Torno su e cerco un bel posticino tutto per me dove piazzare “casa”. Come da piani il “posticino tutto per me” deve essere (e sarà!): lontano dai bagni chimici, lontano dalle tensostrutture, lontano da altre tende. Problema è che più vado su nel bosco e più il terreno si fa ripido. Ora, io non sono un espertissimo di campeggio, ma se vuoi dormire serve il piano e io non lo trovo. Mi sembra di scorgerlo tra due alberi. Bingo! No, bingo una sega, il terreno sottostante è pieno di rami tagliati (i bravi boscaioli hanno un fatto un gran lavoro per ripulire l’area). Che fare? Semplice, il luogo è ideale, basta spostare i rami un po’ più in là. Dopo un’oretta ho finalmente il “posticino tutto per me”. E adesso va in scena il dramma della tenda. Me l’ha prestata mio cognato “Allora io te lo dico subito. A montarla si fa veloce, la lanci e quella è già pronta, basta fissarla in terra. Ma inizia subito a bestemmiare, così ti anticipi per quando la dovrai rimettere com’era prima”. Io svolgo la zip, tolgo st’ammasso di tela dall’involucro che l’aveva contenuto, anch’esso di tela, e lo lancio. La forza di gravità fa il suo dovere ma l’ammasso di tela resta un ammasso di tela. Ma non bastava lanciarlo in aria? Stai a vedere che bisogna davvero bestemmiare! Evito il turpiloquio e in qualche modo la tenda è ancorata e fruibile. Per come smontarla mi farò venire un’idea (ma in cuor mio so che il dramma è appena cominciato). Sistemo le mie cose e faccio un giro “che poi sarebbe quasi ora di pranzo”.
 
C’è un tizio con la motosega che armeggia intorno a un albero (o quello che ne rimane) sulla carrareccia che fa da perimetro allo spiazzo erboso che accoglie il festival. “Buongiorno! Che fa?”. Io non sono un genio ma ho capito che sono davanti a uno scultore. E che quindi quel tronco d’albero alto un paio di metri o poco meno diventerà qualcosa. “Una cascata di libri..” mi risponde. Figo! (esclamaz..no dai basta). Poi continua “..ma adesso vado via”. Il mio sguardo si deve fare interrogativo perché l’arzillo vecchietto si sente in dovere di continuare “Mi avevano promesso un gazebo, e invece sono ancora qui sotto il sole!”. Ha ragione, penso. E siccome da stamattina sono amico intimo di Cognetti azzardo: “Adesso sento io Paolo, vedrà che il gazebo arriverà presto”. Mi ringrazia sentitamente e rimette in moto la sega. Mo’ adesso devo cercare Cognetti, non lo troverò mai. Probabilmente sarà impegnato in una sorta di riunione prefestival dove alla fine si urla “merda!”. E invece lo trovo poco dopo, sudato fradicio (ma è sempre sudato quest’uomo!) alle prese con delle sedie. Gli comunico la mia ambasciata e in cambio ricevo un deciso “Ci penso io, grazie”, ci scappa pure un selfie. Scopro, guardando la foto sul cellulare, che Cognetti, anzi “il mio amico Paolo”, è più alto di me. E ciò mi fa venire fame (mia nonna mi diceva sempre che devo mangiare tanto perché sono alto). Visto che il servizio mensa del Festival non è ancora attivo risolvo la cosa in un ristorantino nel paese, poi, di nuovo in tenda, piazzo pennichella storica.
 
Alle sei in punto il Festival inizia ufficialmente, breve discorso introduttivo e via a parlare di montagna con Cognetti, Linda Cottino e Enrico Camanni. Bello, mi piace qua. Mi piace il clima che respiro, mi piacciono le persone che respirano il clima che respiro (che poi già respirare “un clima” mica è facile). Un unico grosso respiro collettivo, quello che forse andrebbe fatto prima di prendere le decisioni, quelle che riguardano tutti. Verso le otto cenetta niente male con piatti e posate ecosostenibili e quando cala il buio (insieme a un bel temporale) è la volta dei Nema Problema, un gruppo musicale che propone musica balcanica e/o giù di lì. Molto bravi e simpatici. E poi io so cosa vuol dire “Nema Problema”. Lo so grazie al Grande Puffo. Già già. Viaggio in Jugoslavia con i miei quando ancora la Jugoslavia esisteva e le foto di Tito ti squadravano in ogni negozio ed esercizio pubblico. In pullman c’era una minuscola tv appesa nel corridoio e per noi bimbi avevano messo una VHS (ah..le VHS!) di cartoni animati, in lingua locale. A un certo punto Puffetta si rivolge all’anziano barbuto e gli domanda “lvnòvv vòewrhvnsdj?”, insomma una cosa simile, e lui risponde “Nema problema!”. Io guardo la guida e lei mi sorride “vuol dire nessun problema!”. Mi sono vantato di sapere lo jugoslavo per i successivi dieci anni. Finisce il concerto e viene l’ora della nanna. Ma solo per me. Il tum tum tum generato dai DJ mi accompagna fino alle una di notte. Insieme alla pioggia scrosciante. Ma all’interno la tenda è asciutta, i tum tum tum ahimè entrano, l’acqua per fortuna no. Buona notte a domani!
 
Il festival, giorno 2: Quattro brioche, l’”appello”, e uno svenuto  
Il Festival ancora dorme quando la mia vescica si sveglia (faccio pubblica ammenda: in quei tre giorni tutte le mie minzioni sono state espletate sotto un albero, però sempre quello). Mi vesto, cioè mi rimetto la bandana, e raggiungo la fontana. Acqua bella fresca, mi ci vuole proprio, quella venuta la notte evidentemente non mi è bastata. Non mi lavo troppo però, una raccomandazione degli Urogalli è quella di profumare di bosco e io mi voglio adeguare. Adesso devo mangiare, e in fretta. Perché la mattina, dopo la sveglia, ho circa quindici minuti di tempo per l’introduzione di cibo in bocca. Dopo di che, al persistere del digiuno, mi si tappa la vena e non ragiono più. Conduco il mio corpo verso il bar che il giorno prima mi ha visto assiduo avventore (Genepy, sette bicchieri) e con gioia scopro che si può avere un cappuccino mentre “le briosce le trovi dentro il tendone”. Piangerei dalla gioia ma ho troppa fame per farlo. Esco dal tendone con una pasta già nella pancia, una in tasca e due in mano.
 
Afferro il mio cappuccino e do completo sfogo alla mia voracità mattutina. Adesso che ho messo benzina ho nuovamente voglia di camminare. Il tempo non è un gran che e perdo l’appuntamento con l’escursione organizzata delle nove. Nema problema. Mi metto in marcia lo stesso per una zingarata senza una meta precisa. A me piace camminare in montagna, mi piacciono le salite, il respiro che da affannato si fa armonico, gli odori, il suono degli scarponi e in lontananza il “grido” di avvertimento delle marmotte. Se so dove vado bene, altrimenti è uguale. L’importante è non allontanarsi mai dal sentiero, avere uno zaino con ciò che serve, e dare ogni tanto un’occhiata al cielo. Torno nel primo pomeriggio, mi sono perso un po’ di cose interessanti, pazienza. Scopro che alle tre ci sarà “Palco aperto”. Gli avventori, se lo vorranno, potranno esibirsi cinque minuti: interpretazione libera sulla montagna. Andrea! Pensa, pensa, pensa! Qual è il tuo problema? Sì, va bene, la testa, ma a parte quella?? La tenda! Giusto! Come smontarla e reintrodurla nell’apposita vaschetta… ti ci vuole assolutamente un aiuto. Perché quindi non sfruttare quei cinque minuti di celebrità con un appello finale? Prendo il cellulare e scrivo in fretta e in furia del mio primo giorno in montagna (avevo solo quattro anni) e di come, grazie a una busta di plastica bianca, è nato il mio amore per tutto questo ben di Dio (sarà suo davvero? Boh…). È il mio turno, sono l’ultimo. Al termine della lettura il pubblico mi applaude convinto (così almeno mi sembra) e io me ne vado via ringraziando. Poi, quasi sulla scaletta che scende dal palco, mi ricordo: cazzo la tenda! Torno indietro, mi riapproprio del microfono e spiego il mio problema; altre risate ed esco finalmente di scena. Dopo dieci minuti la gente inizia a fermarmi. Mi fanno i complimenti per il discorso (“Molto divertente e poi in fiorentino tutto diventa divertente!”) ma nessuno mi offre aiuto per la tenda. Stai a vedere che hanno pensato fosse parte della “recita”! Ma maremma maiala impestata! Quando le speranze sono ormai perdute si fa avanti un signore che molto gentilmente mi chiede: “Ma le hai lette le istruzioni per lo smontaggio? Di solito sono cucite dentro la fodera”. Istruzioni??? Cioè dai veramente, le istruzioni??? Dissimulo calma cosmica, prendo tempo. “Beh certo…sì, un po’ complicate, ma darò di nuovo un’occhiata”. Il giorno dopo riuscirò da solo a smontare la tenda. Grazie signore gentile.
 
Mi faccio una birra artigianale, un altro genepy e rientro nella tensostruttura. Tra poco inizia lo spettacolo degli (S)legati. Non so bene il motivo ma ho delle aspettative particolari. La storia che racconteranno, brevemente accennata nel programma, mi stuzzica. Mattia e Jacopo sono fantastici fin da subito. L’inizio è leggero ma ugualmente appassionante, il seguito è un crescendo di pathos ed emozione. Fino al punto che una persona del pubblico sviene e i ragazzi sono costretti a fermarsi (io per un attimo ho pure pensato che anche lo svenimento fosse parte dello spettacolo, “sarà metateatro”). Intervengono prontamente medici e infermieri e la persona si riprende. I ragazzi possono quindi finire e poco dopo si godono dieci minuti di scroscianti applausi. Compro una loro maglietta e ho modo di conoscerli. Ammetto che mentre applaudivo avevo le lacrime agli occhi.
 
La loro performance mi ha spossato. Salto con dispiacere il successivo evento (L’amore in mancanza di ossigeno) e mi fiondo nell’altro tendone. Ho fame e quando l’odore della zuppa alla valdostana si congiunge alla sua visione in cavolo, fontina e ossa faccio fatica a reprimere la bava alla bocca. Riprende a piovere e si fa sera, si accendono le luci della centrale elettrica. Bravi, bei testi, pur non essendo “nelle mie corde” mi sono goduto il loro concerto. Time has come to say goodnight. Mi ritiro dalle successive danze (tum tum tum) e mi accuccio nel sacco a pelo. Stasera fa freddino davvero. Ma ha smesso di piovere.
 
Il festival, ultimo giorno: Occhio agli spoiler e grazie Erri, grazie a tutti!
Vescica, bandana, fontanella, cappuccino e quattro brioche: perché cambiare delle sane abitudini? Il tempo sembra volgere al bello, stasera si torna a casa e reprimo con una certa fatica la voglia di un ultimo trekking. A essere onesti sento che il livello di acido lattico è quasi ai livelli di guardia, meglio riposare. Come detto smonto la tenda senza particolari difficoltà (ah, sta cosa delle istruzioni è veramente utile!) e carico la macchina di tutto ciò che ha consentito la mia sopravvivenza negli ultimi sei giorni (lo so, è un filo esagerato detta così). 
 
Ore dieci: Villaggi. Villaggi? In che senso? Ah, esperienze collettive e di autogestione, intrigante! Da ragazzo una prospettiva che avevo tenuto in conto, poi è arrivata un’offerta di lavoro ed eccomi qua, trent’anni o quasi trascorsi da impiegato, computer, grafici, riunioni, incazzature. Ma va bene così, mai lamentarsi di avere un lavoro. Ascolto con estremo interesse le varie esperienze direttamente dalla bocca di chi le ha vissute e le sta vivendo tuttora. È una cosa ben diversa dal leggerle o vederle in TV. Si colgono delle sfumature, anche negli sguardi, che spesso dicono più di tanti discorsi. Nella lista delle “cose da fare” c’è adesso un nuovo punto: visitare almeno uno di questi villaggi. Senza fretta, c’è tempo.
 
Mi prendo un’altra pausa dal Festival (ho sempre il bisogno di assentarmi da tutto e da tutti almeno un paio d’ore al giorno) per poi rituffarmici per la messa in scena de Le otto montagne. Lo so, mi sto volontariamente esponendo a spoiler, ma dei Minima Theatralia ho sentito parlare e sempre in maniera lusinghiera. Mi accomodo (per così dire) in terra molto vicino al palco e mi godo la trasposizione. Applausi convinti, ancora una volta. Che bello questo Festival! 
 
“Il bello di organizzare un Festival culturale è la possibilità di invitare il proprio scrittore preferito”. Le parole di Paolo danno il là all’incontro con Erri De Luca. Erri sale sul palco, posa in terra la giacca, si siede sull’unica sedia e inizia a parlare. Io quell’ora l’ho passata come in trance. Giuro che nonostante gli sforzi non potrei raccontarla senza peccare di presunzione. Presunzione di aver colto in ogni passaggio del monologo il suo profondo significato. No, impossibile. Ho ascoltato e basta, e quando Erri si è fermato ho pronunciato con un fil, di voce un semplice “grazie”. Sovrastato dagli applausi nessuno lo avrà sentito, ma è stato un grazie sincero davvero.
Siamo al finale, l’ultimo bicchiere “prima di scendere a valle e restituire la radura agli animali e al silenzio”. Proprio così, e sento già un po’ di malinconia. In verità mi assale ogni volta che saluto la “mia Valle” ma stavolta c’è di più. C’è che questo Festival mi ha regalato qualcosa. Ancora non ho capito bene cosa ma di sicuro me lo porterò a casa. Una volta là vediamo cos’è.
 
Esco dalla tensostruttura e mi guardo attorno: poche nuvole, l’aria è tersa come al solito, le montagne che circondano Estoul strette tra loro in un possente abbraccio. Gli avventori si dividono, chi resta ancora un giorno in tenda, chi saluta e se ne va. Io sono tra questi. Entro in macchina, mi aspettano sei ore di macchina. Piazzo un CD: Iron Maiden.  Ma si dai, terminiamo in bellezza, un giorno piaceranno anche a mio padre.
 
Andrea Gabellini
2018