“L’irrequietezza è una maledizione. Lei e la sua variante moderna, lo stress, la vacuità di affannarsi dentro un recinto, bisogna far di tutto per evitarle”.
Così scrive Björn Larsson citando Harry Martinson.
Così mi sento ogni giorno, in pianura, circondata dal rumore e dalla frenesia incontenibile della grande città, circondata da una umanità che pare uscita da un corto di Steve Cutts.
Così mi sento ora, su un treno sferragliante e affollato che mi sta portando faticosamente a lavoro.
E’ in montagna che ritrovo il silenzio, il vero lusso del nostro tempo. E’ a Estoul che mi rifugio ogni volta che voglio fermare la corsa.
E’ da questa casa in legno e pietra che mi allontano in punta di piedi, quando i maschi di casa stanno ancora dormendo e il sole non ha ancora bucato le cime. Salgo lungo percorsi e attraverso luoghi che ormai dovrei conoscere a memoria, ma che riescono sempre a meravigliarmi come la prima volta. Salgo e scendo a piedi, in ogni stagione, perché per me c’è una sola velocità, per vivere veramente la montagna, ed è quella dell’essere umano senza altri mezzi se non le proprie gambe.
L’autunno è il periodo che preferisco. Regala giornate dorate come uno scotch invecchiato e l’aria pungente che anticipa l’arrivo della dama bianca. Cieli tersi in cui non c’è altro che luce o ribollenti mari di nuvole da cui la cima del Bieteron sembra emergere e affondare come un relitto in fiamme.
E’ in questo periodo che sperimento il silenzio più profondo.
La neve può fare la sua comparsa all’improvviso e allora mi trovo in mezzo a un mondo bianco ma non vuoto. Mentre passeggio tra i larici e gli abeti mi sento in compagnia. Le impronte degli animali nella neve fresca sono una presenza rassicurante e mi diverto a riconoscerle e a seguirle fuori traccia: una lepre che saltella, un capriolo, una volpe.
Salendo verso i laghi in primavera capita di incontrare delle vere e proprie sculture di neve e ghiaccio modellate dal vento. In alcuni punti la sua forza trasforma la distesa bianca in un mare in burrasca con onde di neve ghiacciata dai riflessi celesti. Se si tende l’orecchio, è possibile udir provenire da lì sotto l’effervescenza soffocata dei torrenti in disgelo.
E’ un’anticipazione della vita che si sta risvegliando e che inonderà tutta la valle da lì a poco. Come i rochi bramiti dei caprioli con i cuccioli, che abbaiano con latrati di allarme quando all’alba attraverso la loro casa alla ricerca di legnetti per accendere il camino. Per quanto rispetti loro e il loro ambiente, sarò sempre un’intrusa. Ma è giusto così.
E’ in questo luogo straordinario che da due anni si svolge il festival “Il richiamo della foresta”. Un festival nato per raccontare i diversi modi di vivere la montagna nel rispetto di un ambiente che è al contempo fragile, affascinante e pericoloso. I libri, la musica, l’arte in generale attraverso le sue molteplici declinazioni e le testimonianze di uomini e donne, che in qualche modo hanno a che fare con la montagna, permettono di immergersi in un clima di festa e coesione.
Quest’anno ho potuto partecipare solo al secondo giorno. Forse è stato un bene, perché le emozioni sono state davvero tante e poi queste emozioni vanno gestite quando si ritorna in pianura.
Ho aspettato con trepidazione l’intervento di Louis Oreiller e Irene Borgna. Avevo finito di leggere qualche settimana prima il loro libro “Il pastore di stambecchi”. Un libro eccezionale che ho amato sin dalle prime pagine e che si è meritato un posto d’onore nella mia libreria tra Mario Rigoni Stern e Sylvain Tesson. Louis non si è presentato. Il mio dispiacere iniziale si è però ben presto tramutato in sollievo: non sarebbe stato il Louis del libro se fosse salito su un palco a raccontare la sua vita straordinaria davanti a degli sconosciuti.
Irene ha colto l’occasione per intervistare un “nostro montanaro”. Un omone dall’animo gentile, con un soprannome da duro ma dal cuore d’oro, che d’estate se ne sta solo lassù in baita e trova il tempo di coltivare gerani. Io e la mia famiglia abbiamo imparato a conoscerlo pian piano, chiacchierando seduti sui gradini della suo porta, che dall’alto si apre ai boschi e ai pascoli sottostanti. Abbiamo imparato ad affezionarci in poco tempo ad una persona, che vive una vita così distante dalla nostra, ma che ci ha aperto la sua casa e il suo sorriso. Mio figlio di quattro anni lo adora. Quando saliamo per il bosco, è ormai spontaneo alzare lo sguardo a cercare una mano che sventola un saluto dall’alto. Ci accoglie con un “vi stavo aspettando”, perché certi appuntamenti in montagna non hanno bisogno di essere programmati e segnati in agenda.
E’ stato poi il momento della Compagnia (S)legati con la rappresentazione teatrale dell’incredibile vicenda degli alpinisti Joe Simpson e Simon Yates. Avevo già letto il libro “La morte sospesa”, ma lo spettacolo è stato davvero emozionante, ho dovuto ricacciare indietro le lacrime più volte. Ho provato la fatica, il dolore fisico, la paura, la disperazione, il sollievo, la gioia e, come me, credo tutti i presenti che alla fine sono esplosi in un lungo e fragoroso applauso.
In chiusura due giganti dell’alpinismo. Nives Meroi e Romano Benet. Incarnano i valori in cui ho sempre creduto nel mio piccolo andar per ghiacciai, appena sopra i 4000 metri. Hanno raccontato un’esperienza di vita vissuta in due, in un confronto leale e puro con la montagna. Una vita in cordata ad aspettarsi e darsi forza a vicenda, sia a 8000 metri che nel quotidiano. Non hanno parlato della malattia di Romano e della “rinuncia” di Nives, un altro motivo di stima verso questa coppia.
Mi hanno fatto ridere e sognare, ma soprattutto mi hanno fatto tornare alla mente i miei inizi di coppia in montagna. La totale fiducia e l’affidarsi a chi poi è diventato mio marito, quando, in piena notte al freddo e alla luce della luna e delle frontali, spingevamo il nostro limite un po’ più in là. Sul ghiaccio, duro sotto i ramponi, tra crepacci e seracchi, legati insieme da una corda, da una passione totale per la montagna e da un sentimento sempre più forte.
La giornata si è poi conclusa in bellezza con un fuori programma. Un bel lupacchiotto schizzato a mano dall’artista Nicola Magrin sull’ultimo libro di Folco Terzani. Magrin, persona squisita, ha conquistato mio figlio con questo disegno e con i suoi capelli lunghi. Mesi di trattative, per convincere il piccolo selvatico ad andare dal parrucchiere, vanificati in pochi minuti.
Mentre tornavo verso il mio rifugio, con il cuore e la testa pieni di emozioni, sono stata accompagnata da una pioggerellina fine. Voltando lo sguardo per salutare il bosco, ho visto comparire sopra il Pian dell'Orgionot un arcobaleno, saturo di colori, che abbracciava il luogo del festival. Sembrava voler indicare che lì sotto stava accadendo qualcosa di intenso e speciale, e forse era proprio così. Ho aperto la porta di casa, lo sguardo catturato dalle bandierine di preghiera tibetana che garrivano al vento e illuminavano il cielo grigio con i loro colori. Mi sono fermata un attimo sulla soglia e ho teso l’orecchio. Il vento sembrava portare con sé anche qualcos’altro: “… era il richiamo che sempre risuonava nella profondità della foresta”.