
Oltre il 40% del grano usato per la pasta nostrana non arriva dall'Italia - Ilrichiamodellaforesta.it
In pochi ne parlano ma secondo le recenti ricerche il 40% del grano usato per la nostra pasta non è italiano.
La filiera della pasta italiana continua a essere oggetto di discussione e analisi, soprattutto in relazione alla provenienza del grano duro utilizzato nella produzione.
Nonostante l’immagine consolidata che lega la pasta al grano coltivato nel nostro Paese, la realtà nasconde una forte dipendenza dalle importazioni.
La dipendenza italiana dal grano duro estero
Ogni anno, l’industria molitoria italiana trasforma circa 6 milioni di tonnellate di grano duro in semola, materia prima essenziale per la produzione di pasta, pane e altri prodotti da forno destinati sia al mercato interno sia all’export. Tuttavia, secondo i dati più recenti diffusi da Italmopa, l’associazione dei mugnai industriali aderente a Confindustria, la produzione nazionale di grano duro nel 2024 si è fermata a 3,5 milioni di tonnellate. Questo significa che l’Italia ha importato circa 2,5 milioni di tonnellate di grano duro, ovvero il 40% del fabbisogno totale, da Paesi come Canada, Francia e Stati Uniti. Nonostante questa dipendenza dall’estero, spesso trascurata o ignorata nel dibattito pubblico, la qualità del grano importato è riconosciuta come molto elevata.
Italmopa, in un comunicato ufficiale, ha sottolineato come il grano proveniente dagli Stati Uniti sia di altissima qualità, smontando miti e sospetti infondati che periodicamente emergono sulla presunta “contaminazione” del grano importato. L’immaginario collettivo tende ancora a identificare la pasta italiana come un prodotto interamente realizzato con grano duro italiano. Tuttavia, la realtà produttiva mostra storicamente un utilizzo consistente di materia prima importata. Da anni, alcune organizzazioni come Coldiretti hanno sollevato dubbi e timori sulla qualità del grano estero, insinuando sospetti senza prove concrete.
Nonostante le analisi e i controlli sanitari ufficiali non abbiano mai riscontrato anomalie, queste campagne di disinformazione trovano spesso eco sui media, grazie anche a giornalisti che rilanciano tali comunicati senza un adeguato approfondimento critico. Questo fenomeno contribuisce a generare confusione tra i consumatori, che si trovano a dover fare i conti con informazioni parziali o fuorvianti.

Guardando al futuro prossimo, il raccolto di grano duro 2025 si preannuncia più positivo rispetto agli anni passati. Italmopa stima un aumento della produzione nazionale a circa 4,36 milioni di tonnellate, con una crescita del 24% rispetto al 2024. Si tratta del miglior risultato dal 2016, frutto sia dell’ampliamento delle superfici coltivate, sia di rese per ettaro superiori. Sul piano geografico, il Sud Italia conferma il suo ruolo di protagonista nella produzione di grano duro, con la Puglia al primo posto (950.000 tonnellate), seguita da Sicilia (800.000 tonnellate), Marche (580.000 tonnellate) e Emilia-Romagna (450.000 tonnellate).
Dal punto di vista qualitativo, il grano raccolto quest’anno presenta buoni standard sanitari e merceologici, anche se si registra una lieve diminuzione del contenuto proteico, un fattore che può influenzare la resa tecnologica durante la trasformazione in semola. Nonostante l’incremento della produzione nazionale, l’Italia non può ancora fare a meno delle importazioni di grano duro, elemento imprescindibile per soddisfare la domanda interna e mantenere la qualità riconosciuta della pasta italiana.
La sfida principale risiede nel valorizzare maggiormente il grano prodotto in Italia, garantendo agli agricoltori un prezzo equo e sostenibile, che incentivino una produzione più robusta e di qualità. Il successo e la fama della pasta italiana non dipendono solo dalla provenienza del grano, ma anche dalla maestria dei pastai, dalla tecnologia di lavorazione e dall’attenzione alla selezione delle materie prime, siano esse italiane o importate. La combinazione di questi fattori contribuisce a mantenere la reputazione di eccellenza che il prodotto detiene a livello globale, anche in un contesto di forte globalizzazione delle materie prime agricole.